E se la smettessimo di chiamare “inattive”(1) le donne che volontariamente scelgono un progetto “alternativo” e cioè di occuparsi dei loro figli (e anche di quelli di qualche amica in carriera) e della loro famiglia? Certo non fanno aumentare il PIL, ma quanta felicità e quanti sorrisi…

immagine creata con l’ausilio della cosiddetta “IA”
La definizione di “inattività” spesso riflette una visione limitata e legata solo alla produttività economica, ignorando il valore immenso di altre scelte di vita. Occuparsi dei figli, creare un ambiente familiare stabile e persino supportare altre famiglie non è certo “inattività” nel vero senso della parola: è un contributo invisibile ma fondamentale alla società.
Non si tratta di correggere una terminologia impropria e irrispettosa ma di riconoscere e contrastare un pregiudizio vero e proprio. Un esercizio spesso impegnativo anche per molte donne- colleghe che le statistiche identificano come “attive”. Da qualche tempo segnalo, variamente inascoltato, la necessità di una transizione metodologica. Chi è disposto a fare un primo, piccolo passo?
(1) Il termine “inattiva” è utilizzato in vari documenti Cnel- Istat e nell’articolo Cresce l’occupazione ma non basta, Il divario di genere rimane abissale: metà delle donne è inattiva
Inattivi: comprendono le persone che non fanno parte delle forze di lavoro, ovvero quelle non classificate come occupate o in cerca di occupazione.
Solo chi non ha avuto la fortuna di avere una mamma a casa può considerare “inattivo” il lavoro definito in altri tempi di “casalinga”.
Conosco al contrario molteplici persone che si “rifugiano” in ufficio dalle corvée casalinghe – educazione dei figli inclusa – giudicate troppo pesanti, anche al costo di versare una fetta importante della retribuzione percepita a qualcuno che se ne occupi in nome e per conto loro.