Un popolo che rinuncia alla propria lingua rinuncia alla propria identità


 Lingua e identità: il silenzioso abbandono dell’italiano

In un mondo sempre più globalizzato, l’italiano sembra perdere terreno. Non per mancanza di bellezza, profondità o precisione, ma per disattenzione culturale. Ogni giorno, nei media, nelle aziende, nei luoghi della formazione, assistiamo a un fenomeno che passa inosservato: l’abbandono progressivo della nostra lingua a favore di quella dominante: l’inglese.

Termini come smart working, deadline, feedback, briefing, soft, target sono ormai parte del nostro vocabolario quotidiano. Non perché manchino alternative italiane, ma perché spesso non ci prendiamo il tempo di cercarle, proporle o difenderle. Così, la lingua si piega, si adatta, si svuota.

il tema non è nuovo. il volumetto reppresentato risale al 1994.

Ma c’è un paradosso: molti di questi termini hanno origini latine, come focus, agenda, status, ratio. Gli anglosassoni colti li usano per conferire autorevolezza e precisione al linguaggio tecnico e accademico. Noi, invece, li riassorbiamo come anglicismi, dimenticando che sono parte della nostra eredità linguistica.

Focus: da latino a moda aziendale

“Focus” è un esempio emblematico. In latino significa “focolare”, il centro della casa. In inglese è diventato il centro dell’attenzione, il punto nodale. In italiano, potremmo dire “obiettivo”, “nucleo”, “concentrazione”. Eppure, preferiamo usare focus — non per le sue radici latine, ma perché suona moderno, internazionale, “giusto”.

L’inglese come estetica: tra “steps” e profumi

L’inglese non è solo lingua tecnica: è diventato linguaggio dell’estetica, del desiderio, della seduzione. Lo vediamo nelle pubblicità televisive dei profumi, particolarmente numerose in questo periodo, dove l’accento anglosassone è imperante, anche quando il prodotto è italiano. È come se l’inglese conferisse un’aura di lusso e universalità — mentre l’italiano, paradossalmente, suona provinciale.

Anche parole semplici come steps vengono preferite agli equivalenti in italiani fasi, passaggi, livelli. Non per necessità, ma per imitazione. È una scelta estetica, non linguistica. E in questa scelta, spesso inconsapevole, si cela una rinuncia: quella a dire il mondo con le nostre parole.

Il caso francese: resistere, poi cedere

La Francia ha cercato a lungo di difendere la propria lingua. Ha usato octet invece di byte, courriel invece di email, logiciel invece di software. Ha istituito commissioni linguistiche, ha imposto regole nei documenti ufficiali. Ma oggi anche lì l’inglese penetra ovunque: start-up, cloud, streaming, challenge. Se persino la Francia cede, l’Italia rischia ancora di più, perché non ha mai avuto una difesa linguistica altrettanto strutturata.

Il fine e i mezzi: parole che pesano

Oggi diciamo “ il fine settimana” con leggerezza, ma dimentichiamo che il fine, maschile, è anche scopo, intenzione, visione. “Il fine giustifica i mezzi” è una frase che ci interroga, ci provoca, ci costringe a pensare. Questo è il segno di una lingua che si semplifica, che si svuota, che perde profondità. E quando le parole perdono peso, anche il pensiero si alleggerisce. Difendere la lingua significa difendere la capacità di pensare, di distinguere, di scegliere.

Un saluto che fa pensare

Quando scrivo “buona fine di settimana”, percepisco il sorriso di chi mi risponde “buon fine settimana”, alludendo al più pratico e veloce WE. È un piccolo gesto, forse strano, forse ironico. Ma è anche un modo per ricordare che le parole hanno un’anima, e che usarle con intenzione è un atto di cura.


Buona fine di settimana.
Con tutte le sfumature che questa espressione può contenere. (continua… )

2 pensieri riguardo “Un popolo che rinuncia alla propria lingua rinuncia alla propria identità

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  1. Sono particolarmente favorevole alla protezione della lingua italiana, della sua ricchezza e profondità. Va però anche ricordata la cultura italiana, “arricchitasi” durante il ventennio fascista di brutti ricordi. Non penso che l’imposta autarchia linguistica sia la sola causa della diluizione dell’italiano ma sicuramente la paura di ripetere certi errori ha aperto la porta della tolleranza a termini stranieri. Temo che ormai la memoria storica di questo perché si stia perdendo ma la porta resta aperta. Propongo una retrospettiva interessante: https://www.rsi.ch/cultura/storia/Parole-proibite-l’autarchia-linguistica-durante-il-Fascismo–2609724.html

    1. Grazie Luca, per il commento positivo. Ho letto due volte il testo “svizzero” che hai allegato. Condivido, in parte, le argomentazioni. Certo, la lingua non può restare immune dalle fluttuazioni della politica. Tuttavia, un conto è italianizzare tutto, un conto scimmiottare tutto, per confondere gli altri e non ammettre le nostre inadeguatezze, anche linguistiche. Non impariamo quasi mai dai nostri errori anche perché rifiutiamo di riconoscerli ed ammetterli. Magari 80 anni dopo … ma è un po’ tardi, anche perché il contesto è molto, molto cambiato. Meno la natura umana …

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