Molti lo intuiscono, pochi hanno il coraggio di dichiararlo. Il problema siamo noi. Mentre i danni che abbiamo certamente contribuito a creare al nostro pianeta ci affliggono, noi continuiamo a combattere contro i nemici che di volta in volta ci illudiamo di individuare e sconfiggere. Pronti a brindare alla vittoria già prima di aver iniziato la sfida. Facciamo buoni propositi di cambiare, e soprattutto far cambiare agli altri, le cattive abitudini a cui non sappiamo rinunciare. Ormai la prospettiva del castigo eterno non ci spaventa più e la tecnologia, più che la scienza, ci illude di poter uscire comunque vincitori nella ricerca della felicità ad ogni costo. I più ricchi e viziati pensano addirittura di “andarsene di casa” per tentare una nuova avventura, magari su Marte, e si rifiutano di assumersi le loro responsabilità.. Inutile dire che l’approccio metodologico con cui affrontiamo i nostri numerosi problemi non è più adeguato. In queste condizioni, lo scenario sociopolitico che si comincia ad intravvedere per il futuro prossimo si configura come una “variante” che assomma il peggio del collettivismo a quello del capitalismo . Uno scenario non idilliaco per i nostri figli e nipoti.
Perché non dirottare una parte degli investimenti in ricerca e sviluppo tecnologico verso lo studio degli umani? Finanziare la ricerca sulla nostra evoluzione non più naturale, le cause dei nostri comportamenti incoerenti ed autolesionisti, ancora basati sulla simulazione e l’inganno, potrebbe portare una maggiore consapevolezza dei nostri limiti. Progetti mirati potrebbero creare le condizioni per individuare ed accettare un nuovo approccio nelle nostre relazioni, superando la millenaria logica delle tribù e dei totem. Ciò di cui abbiamo urgentemente bisogno è una transizione metodologica. Dedichiamogli l’attenzione, le capacità e le risorse necessarie.
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